Lo so, la domanda è leggermente provocatoria. Già nel post precedente avanzavo il dubbio di una qualche confusione connaturata alla grande diversità che esiste nel mondo contadino: esistono aziende agricole troppo diverse tra loro per tipo di struttura, per ampiezza, per capitali investiti, che generalizzare crea solo confusione, quella confusione che tanto piace ai nostri politicanti i quali hanno preso a solidarizzare quasi all’unanimità con gli agricoltori.
E vai di retorica sui contadini che sono fondamentali perché sono alla base dell’alimentazione, sono i custodi del territorio, sono gli eroici lavoratori che conducono una vita durissima! Mi viene una crisi di prurito.
Poi seguo i vari dibattiti su giornali, radio e televisione e capisco che non capisco niente. In Germania sono insorti perché hanno ridotto i contributi governativi sul gasolio, in Francia la scintilla della rivolta nasce dal regolamento sui fitofarmaci, in Olanda la rivolta contadina nasce dalla volontà del governo di ridurre del 50% le emissioni di ossido
d’azoto, in Polonia la protesta dei contadini nasce dalla concorrenza del grano proveniente dall’Ucraina. A questo punto non ci resta che scendere in piazza anche noi e ci uniamo al coro. Contro l’Europa, chiaramente stimolati dai nostri amati ministri che vedono lontano, contro la politica ambientale che non capisce che i contadini sono le sentinelle della natura ( questa l’ho sentita dire veramente) contro la filiera della grande distribuzione che taglieggia i piccoli produttori.
Ecco, un poco alla volta uno dei grandi temi unificanti del mondo contadino si fa strada e riguarda il sistema distributivo. Di questo si dovrebbe discutere anche se il tema è vecchio come il cucco…. Ho appena seguito il domanda e risposta che oggi 1 febbraio 2024 si è tenuto in parlamento ( o era in senato?). C’era lo splendido paladino di noi contadini, il ministro dell’agricoltura e della sovranità alimentare che rispondeva alle veementi proteste dei rappresentanti del popolo. Circondato da un vago olezzo di stallatico il ministro levava anch’egli la sua voce in difesa delle masse rurali accusando la perfida Albione, anzi, la perfida Europa, di fare una pessima politica di sostegno all’agricoltura e di lucrare sui contributi agricoli a vantaggio di una sballata idea di sostegno all’ambiente.
Sarebbe interessante, ma proprio interessante aprire un serio dibattito sul mercato, su chi regge le filiere alimentari, chi sono e che peso hanno, su come si crea il prezzo della merce, su come esso si distribuisce tra i diversi soggetti. In altre parole: non è per caso che finanza e grande distribuzione se ne approfittino un tantino dei poveri contadini e dei piccoli produttori? E non è forse ridicolo che tutto il dibattito si fermi sui sostegni che lo stato deve elargire ai produttori agricoli, quando la questione riguarda le grandi reti di distribuzione che sono loro che taglieggiano il produttore?
Tanto per capirci prendiamo un prodotto agricolo come il frumento. Di frumento ne girano quantità enormi. E’ uno di quei prodotti che viene definito una commodity ossia una materia prima che costituisce un fondamentale oggetto di scambio internazionale, come il petrolio, o il caffè o l’oro. A determinare il prezzo del grano concorre principalmente la borse di Chicago che attraverso il meccanismo speculativo del futures scommette sull’andamento della produzione. Un puro meccanismo di speculazione finanziaria determinerà di fatto il valore del frumento. Poi certo esistono dei piccoli correttivi determinati dalla borse locali, ma che non possono prescindere da Chicago. Poniamo che la borsa americana abbia fissato il valore del frumento a 200 euro a tonnellata. Un produttore, per effetto di una stagione sfigata ha prodotto solo 5 tonnellate di grano per ettaro. Questo significa che è in perdita. Il suo guadagno parte da una produzione di almeno sei tonnellate ad ettaro. Un buon raccolto si aggira su 8 T. Quel produttore ha perso 200 euro ad ettaro e sono soldi veri quelli che perde. Se invece ha avuto una ottima annata guadagno 400 euro per ettaro. Ora è facile capire come una piccola impresa che ha in tutto 20 ettari di terreno può contare su un utile di 8.000 euro. Una miseria con tanta spesa anticipata e tanto rischio legata alle condizioni atmosferiche, ai potenziali danni dovuti a parassiti e muffe e compagnia cantante. Ecco perché tanta importanza rivestono i contributi che lo stato eroga ai coltivatori. Anche in una economia di mercato spinto come quella americana, gran parte della produzione agricola viene contribuita dalla Stato.
Il rapporto tra domanda ed offerta dei prodotti agricoli sembra dominato da fattori estranei dove il prezzo non è frutto di una qualche mediazione tra produttore e acquirente, ma è dominato da una forza estranea che agisce a prescindere da costi di produzione, valore del prodotto, fattori locali e particolari. Quello che è perfido in questo rapporto è che senza l’intervento pubblico a sostegno del produttore quasi di sicuro nessuno coltiverebbe più nulla perché ci rimetterebbe e basta.
Lo stato prende atto di questo abominio. Semplicemente il costo minore per lui è quello di sostenere il produttore, mentre dovrebbe essere logico intervenire sul mercato e porre regole chiare a tutela della produzione. Ma purtroppo sembra che la finanza sia più forte dello Stato… Capite come sia difficile trovare il bandolo…
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