Storia dell’azoto: episodio 7

Karl Marx (1818 -1883) – scrive ne L’ideologia tedesca:

“La più grande divisione del lavoro materiale e intellettuale è la separazione di città e campagna. L’antagonismo tra città e campagna comincia col passaggio dalla barbarie alla civiltà, dall’organizzazione in tribù allo Stato, dalla località alla nazione, e si protrae attraverso tutta la storia della civiltà fino ai nostri giorni “. 

 

Antagonismo città-campagna.
Due mondi separati che è sempre più difficile mettere in relazione anche ora, nonostante la pubblicità punti molto su parole che echeggiano ad una natura incontaminata, sulle immagini di una campagna di altri tempi, con mulini bianchi e sapori di una volta. Anche ora che girano leggende metropolitane su giovani al lavoro nei campi, su miracolose aziende che producono cibo pulito, sano e giusto a impronta ecologica nulla. 

Ma città e campagna in realtà continuano a restare separate, anzi antagoniste. 

A dirla tutta, poi, non è che questo antagonismo sia in qualche modo equilibrato. Tutto racconta di una prevalenza della città contro la campagna e la risposta della campagna è sempre più condizionata dalla potenza della città, fino al punto che gran parte della campagna è dominata del sistema urbano.  

Oddio, che cosa vai dicendo?  E cosa centra tutto questo con l’azoto?

Ora, diciamocelo chiaro, l’azoto è solo una parte del discorso. Quando parlo di azoto intendo un metodi di produzione che prende la forma e la sostanza  di un industria che produce concimi e diserbanti (vedi, ad esempio, colossi come la Bayer), che controlla attraverso leggi ferree la produzione di sementi ( vedi, ad esempio, colossi come la Bayer) che impone metodi di  distribuzione di contributi governativi (sono assolutamente contro i contributi governativi!) condizionati dall’utilizzo di sementi certificate, che determina i prezzi delle merci attraversi la borsa (city)  che fissa i valori dei principali prodotti agricoli attraverso meccanismi puramente finanziari soggetti, ovviamente, a calcoli meramente speculativi.
A questo punto la campagna è solo uno sbiadito ricordo. 

Nel precedente episodio di questa epica storia sull’azoto, raccontavo di come è cambiata, nel giro di soli 50 anni, la vita di chi chiamiamo ancora contadini. Quello di cui non ci rendiamo conto è che in questo passaggio da una agricoltura ancora manuale a quella industriale, abbiamo perso una quantità mostruosa di cultura. Tesori di “sapere” accumulati in secoli di osservazione della terra, di sperimentazione di tecniche empiriche di governo dell’ambiente e delle colture, di conoscenza dei singoli microclimi esistenti nelle diverse zone coltivate, sono andati perduti in un batter d’occhio.

Le barbose direttive della Comunità europea nonché i bandi di sostegno all’agricoltura, redatti  dalle varie regioni in un dialetto burocratico degno di locali azzeccagarbugli, non fanno che parlare di difesa della biodiversità.  

Ma come la difendi la biodiversità quanto alla fine si incentivano le monoculture prodotte con sementi modificate e certificate secondo i crismi delle produzione industriale?

E come la mettiamo con lo sforzo, sempre velleitariamente enunciato, di ridurre l’uso dei fertilizzanti attraverso una normativa che fissa massimali di utilizzo, a fronte del sempre registrato incremento di vendite di prodotti  di chimica di sintesi ( Beh, ma la Bayer avrà pure diritto di crescere anche lei!) 

La biodiversità era il risultato effettivo di una cultura che conosceva ogni piccolo pezzo di terra e sapeva scegliere cosa e come coltivare in quel dato luogo, sapeva dove e come scavare scoline e fossi, dove e come piantare filari  di alberi, dove e come mettere i terreni a riposo e come fare rotazioni e consociazioni di colture.

La civiltà dell’azoto, che come ho cercato di enunciare, rappresenta la conquista della terra e del mondo agricolo da parte del sistema industriale ossia da parte della città, si configura come il sistema produttivo  meno adatto a fornire una risposta in grado di limitare i danni alle modificazioni climatiche e alla degradazione dell’ambiente danni, ovviamente, che sono proprio il frutto del modo di produzione industriale.
Pensare che sia proprio questo sistema in grado di rimediare ai suoi danni mi sembra una bella pensata, ma priva di ogni ragionevolezza. Il bello è che continuamente stiamo dentro questo modo di procedere e sono convinto che sia fatto in perfetta buona fede (guardatevi dalla “buona fede”  essa genera quasi sempre sventure!).

Prendete ad esempio il Piano di Sviluppo Rurale  della Regione Veneto. Lo trovate in internet ed è uno volumetto di 980 pagine… Provate a capirne la logica con il quale è costruito e come esso contenga tutto… E’ perfetto: ovviamente si parla della necessità di sburocratizzare il sistema… si parla di biodiversità ma anche di incremento di aree a coltura cerealicola. Bastassero le 980 pagine! Poi ci sono le modifiche, le spiegazioni e i bandi successivi.
E’ una massa di elementi  burocratici che alimentano necessariamente altra burocrazia nel nome della sburocratizzazione. Non se ne esce.

Ivan Illich (1926-2002) è, a mio modesto parere, il pensatore più interessante e fuori dagli schemi di tutto il 1900. Se posso banalizzare il suo pensiero me lo raffiguro come un mostro, una specie di coccodrillo  che avanza e divora tutto. E’ il sistema produttivo, la macchina che incorpora dentro di sé l’uomo, la sua cultura, la sua stessa necessità di aria aperta per rinchiuderlo dentro un capannone di fabbrica o in una stanza con dentro un computer e l’aria condizionata….Fuori di là è solo desolazione e periferia degradata. E l’uomo? Con tutta la sua ambizione egocentrica, la sua voglia di dominare il mondo e di crescere e moltiplicarsi? Un povero  mentecatto chiuso tra pareti di cemento o dentro una scatoletta con le ruote dalla quale intravede qualche filo d’erba tra le rotture dell’asfalto.

Ma rileggiamolo oggi il buon Ivan Illich, magari impariamo qualcosa!

 

 

 

 Marco (Donna Gnora)